Thursday 14 September 2017

Sulla mia ortografia del dialetto Romagnolo di Russi

Avendo fatto una traduzione di Saffo in dialetto Romagnolo, precisamente nel dialetto di Russi parlato da mio padre e dai miei nonni paterni, devo decidere un modo di dare a tale traduzione una veste ortografica sensata per presentarla nel blog. Su consiglio di E.P. ho consultato il vocabolario dialettale di Libero Ercolani. Tuttavia, ho l'impressione che quel dizionario rifletta un dialetto, probabilmente ravennate dato che il dizionario è stato pubblicato a Ravenna, che, pur molto simile al mio, non è esattamente lo stesso. La cosa non è sorprendente, visto che basta spostarsi di un paese e il dialetto cambia, di poco, ma cambia. Dunque partirò da un'analisi fonetica della mia pronuncia nel dialetto per giungere a un alfabeto fonetico, che in parte trarrà convenzioni da quel dizionario, e in parte adotterà convenzioni proprie, segnalando tali casi esplicitamente in questo post.
Procediamo dunque all'analisi fonetica. Ci tengo a precisare che i miei metodi non sono particolarmente precisi: principalmente l'identificazione dei dittonghi si basa sul mio orecchio e, soprattutto nel caso dei secondi elementi dei dittonghi, sul fermarsi su quegli elementi e spostare la lingua in avanti per ottenere vocali "frontali" di più facile identificazione. Per esempio, nel caso di /eɘ̯/, per concludere che il secondo elemento fosse /ɘ/ e non, per esempio, /ə/, mi ci sono fermato sopra, ho spostato la lingua in avanti, e ottenendo una /e/ ho concluso che il suono originale dovesse essere una vocale "chiuso-media" e "srotondata" (che poi a dire il vero tra chiuso-media e media là davanti non distinguo proprio, quindi potrebbe benissimo essere una ǝ, ma certo non una з), dopodiché fermandomici sopra e arrotondando le labbra non ho ottenuto una /o/, dunque l'elemento originario doveva essere "centrale", e dunque /ɘ/. Se qualche linguista o fonologo che ne sa di più o dispone di metodi più precisi (tipo PRAAT, che io non so usare e nemmeno ho scaricato, anche ammesso che sia gratis) per identificare le vocali leggesse questo post, non esiti a contattarmi per mettere, quando voglia, questi sistemi a mia disposizione. Si noti da ultimo che i termini fonetici che utilizzo sono calchi da me coniati dei termini inglesi, dunque potrebbero non essere corretti.

  • Per prima cosa, naturalmente, la mia ortografia trarrà molto da quella dell'Italiano, come è più o meno standard fare nello scrivere un dialetto;
  • Le consonanti, per fortuna, sono molto simili a quelle Italiane; a loro riguardo, bisogna solamente menzionare le sequenti poche cose:
    • La "z" indica le due fricative dentali /θ/ e /ð/, dove la pronuncia sorda viene, quasi come fa l'altro dizionario, indicata da un punto sotto, perché il + usato dal dizionario non è digitabile colla mia tastiera mentre il punto sì;
    • Analogamente, per la "s" sonora /z/ uso ṣ (s con punto sotto invece del più), mentre per quella sorda /s/ uso una "s" semplice;
    • Sospetto fortemente che il fonema /s/, così come quello /z/, oscillino tra una pronuncia che chiamerò X, la cui natura è per me incerta (vedo dopo), e una normale lamino-alveolare, quest'ultima essendo quella italiana standard; non tenterò di precisare questa distinzione, che non mi risulta fonematica, ma predispongo per chiunque volesse essere più pignolo l'uso dell'accento acuto (ś, ṣ́) per indicare la pronuncia X; ho chiesto a mio padre, che è madrelingua; lui non pare distinguere i due suoni, quindi probabilmente non vi è un'opposizione fonematica tra X e lamino-alveolari; dagli esempi che mi ha fatto, il sospetto che ho è che il fonema sia apicale, ma si assimili a laminale quando si trova racchiuso tra due dentali, come nella frase «a-n sò bõ 'd stêṙ férum» (non son capace di stare fermo), dove la "s" di "stêṙ" è circondata da "'d" e dalla "t" che la segue, due dentali, e diventa laminale; non so se vi siano altri contesti in cui questa variazione ha luogo, e ascoltando 30m di mia nonna pare che sia una questione di accento, visto che la nonna, a parte un caso isolato, ha consistentemente la pronuncia X; questa X, stando a Wikipedia, è retroflessa; io non ho l'assoluta certezza che sia retroflessa, ma dal suono sicuramente o è retroflessa, o è apico-alveolare, o è alveolare retratta come quella greca; devo studiare un sistema di fare un sondaggio che mi dia qualche informazione in merito;
    • Dato che non mi risulta che la /ʃ/ (sc di scena) esista in questo dialetto, utilizzerò la "sc" per la successione /stʃ/, laddove per esempio in Veneto viene usata la grafia "s'c" o simili; dunque "fèscia" non ha da leggersi all'Italiana, ma come un fès-cia, cioè una s italiana e poi una c dolce italiana;
    • Ritengo che i fonemi /tʃ/ e /dʒ/ possano, a seconda del parlante e forse anche della vocale che lo segue, oscillare tra un suono palato-alveolare (alias postalveolare, i suoni delle c e g dolci in Italiano) e una pronuncia alveolo-palatale /tɕ/ e /dʑ/; anche qui, la distinzione non è fonematica ma allofonica o dipendente dal parlante, dunque non mi prodigherò per distinguerla, ma predispongo un sistema per farlo, e precisamente suggerisco di contrassegnare la pronuncia alveolo-palatale con l'accento acuto (ć, ǵ); e anche qui devo trovare il modo di ottenere informazioni in più;
    • C'è poi da osservare che le consonanti geminate (alias "doppie" per l'ortografia italiana delle stesse) non esistono in questo dialetto; dunque, se vedete una doppia, tipicamente sarà un artificio per indicare una quantità vocalica, ovvero una tendenza a pronunciare la vocale precedente come corta (consonante doppia) o lunga (consonante singola);
    • Si noti anche che, per la /tʃ/ finali, uso la grafia -c, e per le /k/ finali uso -ch, raddoppiando la c in caso di ultima vocale breve; quindi ad esempio abbiamo òc (o aperta lunga, c dolce, "occhio") e ócc (o chiusa breve, c dolce, "occhi"), e poi nẽch (n, e aperta lunga, c dura, "anche"), e non mi viene in mente un esempio di -cch;
    • Esistono da ultimo delle consonanti finali (tipicamente negli infiniti) che vengono pronunciate solo come "liaison" quando la parola successiva inizia per vocale; il dizionario le scrive come sempre pronunciate, forse perché a Ravenna si pronunciano sempre; io preferisco indicarle con un punto sopra, dunque con ṙ; esempi sono, appunto, gli infiniti, come mãgnêṙ, mangiare; inizialmente avevo l'impressione che i participi (come mãgnê, mangiato, che originariamente intendevo scrivere mãgnêḋ) avessero una "d" di liaison, ma poi mi son reso conto che l'unico esempio di tale ḋ che avevo in mano era nêḋ (nato), e soltanto in un indovinello che forse registra una forma arcaica; in effetti a volte anche negli infiniti le liaison spariscono pur avendo una parola che inizia con vocale a seguirle, nel qual caso sostituisco la ṙ con un'apostrofo; forse nel caso dei participi la ḋ si è quasi sempre persa tranne in pochi casi; certo è che i dittonghi nel parlato veloce possono perdere i secondi elementi, e questo succede certo nel caso di una liaison mancata, sia di tipo ṙ che di tipo ḋ; per esempio, "a-n ò mãgnê incôra" (ne ho mangiato altre volte) presenta un "ê i", che si contrae in "é" (tipo "ehi"), così come "a-j ò incôra da masê' ignaquël" (devo ancora preparare tutto);
  • Per le vocali la storia è invece assai più complicata, essendo l'inventario vocalico del Romagnolo assai più ricco, almeno nei dittonghi, di quello italiano.
    • Per prima cosa abbiamo il dittongo che il dizionario scrive ê; questo è quello che ho usato come esempio prima: la mia descrizione precisa è /eɘ̯/, dunque si inizia con una "e" chiusa italiana e si finisce con un suono prossimo alla schwa che è la vocale chiuso-media centrale non arrotondata, che curiosamente al mio orecchio suonava, prima dello studio "preciso" descritto sopra, come una "a" più che una "o", nonostante l'altezza sia la medesima di quest'ultima; evidentemente il mio orecchio percepisce di più la centralità che l'altezza; effettivamente potrebbe anche trattarsi di una schwa: dopotutto distinguere le due vorrebbe dire distinguere, dopo lo spostamento della lingua, una /e/ da una vocale media, cosa che non credo di essere in grado di fare; anch'io adotto la grafia ê (e con circonflesso) per questo dittongo, che è quello per esempio di frê (frate, distinto da fré, scrivibile all'italiana come fréi, che è il plurale) o di mãgnêṙ (mangiare) e mãgnê (mangiato);
    • C'è poi il dittongo che il dizionario trascrive ē, che in grafia italiana si scriverebbbe éi (e chiusa + i); a me risulta che la e aperta da sola (che sarebbe probabilmente é nella grafia del dizionario) non esista nel dialetto che scrivo se non come risultato di un dittongo che perde il secondo elemento (vedi ultimo punto sulle consonanti), e dunque ritengo superfluo introdurre la barra sopra per questo dittongo, e dato che le e aperte dell'Italiano diventano, nella parlata di mia nonna, esattamente questo dittongo, ritengo opportuno usare la é (e con accento acuto) per questo dittongo, il quale è spesso l'unica differenza fra plurale e singolare di certe parole; ad esempio, abbiamo frê (sing., frate) e fré (plurale), oppure mãgnê (mangiato, sing.) e mãgné (plurale), o anche prê (prato, sing.) e pré (plurale);
    • Abbiamo poi il dittongo trascritto con ë nel dizionario, che dai miei studi risulta essere /ɛɐ̯/ o /ɛɜ̯/; in questo caso, i miei studi hano dato risultati insolubilmente contrastanti; in ogni caso, adotto la grafia ë del dizionario; il dittongo in questione si trova ad esempio in stëla (stella), e nel plurale stël (stelle -- o forse è stèll? Non sono del tutto sicuro…);
    • Ho l'impressione che le "e", se seguite da una "n" che a volte scompare, vengano abbassate a /ɛ/ (che si scriverebbe è, e coll'accento grave) o addirittura ad /æ/; anzi, sono sicuro che ho sentito almeno una di queste e, almeno una volta, pronunciata come un dittongo tra /aɛ/ ed /æɛ/; per tale incertezza dell'esatta pronuncia, dove il dizionario usa è, io uso ẽ, per indicare l'effetto della nasale con una tilde, che veniva usata, se non erro, come abbreviazione scribale per una "n" successiva; per esempio, nel termine bẽ (bene), la "n" è scomparsa, ma se ne sente l'effetto nella vocale; analogamente in ẓnẽ (piccolo), che però si dice anche ẓnì, o da ultimo in zẽna (cena), dove la "n" non è scomparsa; la cosa potrebbe essere giustificata anche dalla nasalità di questa vocale, e lo stesso vale per tutte le vocali che indico con tilde; anche qui, c'è da studiare un metodo di ottenere informazioni in merito a mo' di sondaggio;
    • Naturalmente scrivo la e aperta /ɛ/ come è; quella chiusa mi pare esista solo nelle sillabe non toniche, dove non esiste quella aperta, oppure come residuo di un ê/é che perde il secondo elemento, e dunque non la contrassegno;
    • Analogamente succede per la o aperta /ɔ/ e quella chiusa /o/, rispettivamente ò ed ó; qui la distinzione esiste nelle sillabe toniche, per esempio si hanno còt (cotto, con vocale lunga) e cótt (cotti, con vocale breve); nelle sillabe non toniche, la distinzione si neutralizza, e i segni diacritici diventano superflui e pesanti, e dunque non ne faccio uso; per la verità, anche certe ò potrebbero essere dittonghi, precisamente /ɔɐ̯/;
    • C'è poi il dittongo che in grafia italiana sarebbe "óu" (o chiusa + u); non ricordo con certezza cosa faccia in merito il dizionario, ma io uso, come mi pare anche il dizionario, la grafia ô (o con circonflesso), salvo usare la tilde nel caso questo sia l'effetto di una "n", scomparsa o no; quindi abbiamo tô (to', tieni), ma bõ (buono) e casõ (casone, capannone);
    • Abbiamo anche il dittongo scritto ö nel dizionario, che dai miei studi risulta essere /ʊɘ̯/, dove il primo elemento è simile ad una "u", mentre il secondo ha la stessa incertezza di quello di ê descritto sopra; in realtà mi viene il dubbio che il primo elemento sia una /o/ chiusa: dopo tutto, /o/ e /ʊ/ sono molto vicine tra di loro; anche per questo dittongo adotto la grafia del dizionario; per esempio abbiamo öv (uovo o uova, invariabile), röda (ruota), röd (ruote), e a-m arcörd (mi ricordo); notare che in altri "sottodialetti" questo dittongo si risolve in una ò, dando origine al titolo "Amarcòrd" di un film;
    • Il fonema /a/, se seguito da una "n" che a volte scompare, viene pronunciato come /ɘ/, quindi il secondo elemento di ê e ö; tale suono io lo scrivo come ã per pignoleria ortografica, mentre il dizionario lo indica con â, forse risparmiandosi il circonflesso quando non è accentato, scelta giustificata dal punto seguente di questa lista; quindi ad esempio abbiamo mãma, cãna, cã (cane), nãna, mãgna (mangia, terza persona singolare dell'indicativo presente); Wikipedia sostiene che si tratti di una vocale posteriore medio-chiusa nasale /ɤ̃/; sono abbastanza convinto che non sia una vocale posteriore ma una centrale, ma sulla nasalità ho il sospetto che abbia ragione Wikipedia; ancora, devo studiare un modo per investigare la questione;
    • L'ultima cosa da notare è che i fonemi /a/ e /ɘ/ (quindi "a" e "ã"), quando non accentati, tendono a ridursi ad una /ɐ/, quindi una specie di schwa ma colla lingua più in basso, molto vicino ad una "a"; non trascrivo ortograficamente la riduzione, lasciando le grafie dei suoni come accentati;
  • Per stabilire l'accento di una parola, una utile rule of thumb (linea di massima) può essere che, se una parola presenta un solo diacritico, quello indica l'accento, mentre se ne presenta due le tilde perdono sempre ed i circonflessi perdono contro accenti gravi ed acuti, così come fanno le dieresi.
  • L'ultima convenzione ortografica da segnalare ha dietro una questione grammaticale; questo dialetto presenta, in tutte le persone, dei pronomi personali atoni nella coniugazione dei verbi -- come accade in Francese, salvo che in Francese forse si possono omettere a fronte di soggetti specifici tipo "Pietro", mentre in Romagnolo direi proprio di no, ovvero "Pierre mange" funziona in Francese ma non in Romagnolo dove si dice sempre "Pierre il mange"; cose simili si trovano in altri dialetti del nord, per esempio, in Milanese abbiamo "te" di seconda persona, "el" di terza singolare maschile e "la" di terza singolare femminila, mentre alla prima singolare ed al plurale non terza persona troviamo l'assenza del pronome, che io sappia; in Romagnolo abbiamo:
    • "a" di prima persona singolare;
    • "t" di seconda singolare;
    • "'e"/"u" di terza singolare maschile;
    • "la" di terza singolare femminile;
    • "a" anche per prima e seconda plurale;
    • "i" e "al" come plurali di "'e"/"u" e "la" rispettivamente;
    Tali pronomi spesso e volentieri si attaccano a pronomi complemento (complementi oggetto proclitici, "oggetti indiretti" proclitici, particelle riflessive o di verbi intransitivi pronominali), particelle di luogo, all'equivalente dell'Italiano "ne", o alla negazione "n", talvolta anche introducendo vocali eufoniche; in questi casi, introduco dei trattini (-) per separare i pronomi complemento, i pronomi atoni, le particelle di luogo, e il "ne"; ad esempio:
    • "l'ho fatto" si dice "a-l ò fat": "a" pronome atono, "l" = "lo", "ò" = "ho";
    • "non c'è nessuno" si dice "u-n-j è inciõ": "u" pronome atono, "n" negazione, e "j" particella di luogo; "n-j" si contrae in "gn", ma preferisco indicarlo etimologicamente;
    • "non ne ho fatto nessuno" = "a-n-n ò fat inciõ": "a" pronome atono, "n" negazione, e "n" = "ne";
    • "se ne ha per male" (taduzione letterale di un'espressione che significa "ci rimane male") = "u-s-n à par mêl", "u" pronome atono, "s" = "se"/"si", "n" = "ne";
    • "se ne va a casa" = "u-s va a ca": "u" prefisso, "s" = "se"/"si", il "ne" non si mette;
    • "te l'ho pur detto!" = "a-t-l ò pu dètt": "a" pronome atono, "t" "oggetto indiretto", "l" complemento oggetto;
    • con "n" succedono le due seguenti "stranezze":
      • "ne vuoi un po'?" = "in vu-t un pö?", dove "in" è "n" = "ne" con una vocale in più, il pronome atono "t" è finito dopo il verbo come capita nelle domande (vedi sotto), e la tipica particella interrogativa "a" si è persa, fagocitata da "in"; si potrebbe discutere che la "i" sia una forma alternativa di questa particella interrogativa, ma credo che la "i" sia parte di una forma alternative di "n", visto che "in" compare anche nel prossimo punto;
      • "non ne voglio" = "a-nn-in vòi": "a" pronome atono, la negazione si è raddoppiata in "nn" forse per eufonia, e di nuovo "in" ha la vocale in più;
    • Un paio di esempi di vocali eufoniche per chiudere la carrellata:
      • "non vuoi" = "t-a-n vu", "t" prefisso, "a" vocale eufonica, "n" negazione; non si confonda questo con "t-in vu" = "ne vuoi";
      • "alj-u-n fa gnit" = "esse non fanno niente", dove "alj", pronunciato che finisce con una gl come in "gli", è il prefisso "al" in una forma che compare solo:
        • Quando esso è seguito da "n" e da un verbo che impone una vocale eufonica;
        • Quando viene usato con un verbo che inizia per vocale;
        • Quando è seguito da "i" (=ci) (a quanto ne so), "u" è una vocale eufonica, e "n" è la negazione;
    • Da ultimo, quando si fa una domanda, i pronomi atoni vengono collocati dopo il verbo; per esempio, "io mangio" = "a mègn", "mangio?" = "a mègn-j-a?", dove la "-a" è il pronome atono, mentre l'altra "a" è una particella interrogativa; come si è visto, in questi casi uso i trattini per separare i pronomi atoni dal verbo; i complementi e tutto quel che si legava ai prefissi restano davanti al verbo; talvolta, come nell'esempio, si inserisce tra verbo e postfisso una "j", presumibilmente eufonica;

Prima o poi posterò un po' di cose in dialetto per mostrare queste convenzioni con esempi più ampi di singole parole. La bozza esiste già da tempo, ma ha delle lacune da colmare che non ho tempo di trattare. Per ora, c'è una canzone Romagnola, la traduzione di Saffo di cui sopra, e varie traduzioni in Romagnolo (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, e 9), e tant'è.

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